Shatila – Diario di viaggio (Primi giorni)

Dalle pagine del diario di viaggio di Costanza Martella:

Atterrare a Beirut ci regala un immagine fittizia della città. Dal finestrino dell’aereo si vedono luci, grattacieli. Anche l’aeroporto falsa l’idea che ci si può fare di qui.

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Alla frontiera, al controllo passaporti, già mi stavo preoccupando di tutte le domande che mi avrebbero potuto fare. Ho puntato la guardia che sembrava più simpatica ed ho esibito il migliore dei miei sorrisi. Quando ha visto che ero italiana, di Roma, si è messo a parlarmi di calcio, ridendo. Mi si è fermato un attimo il cuore quando ha scrutato l’alloggio che avevo scritto sul foglio. Mi ha chiesto se fosse un hotel. A Shatila, il campo profughi dove saremo ospitati, gli edifici sono tutto tranne che hotel. Ho detto di si. Per fortuna non ha insistito. Mi ha fatto andare augurandomi buona permanenza.

[…]

ABU_scrivania_1200Ancora più agitata sono stata quando ho incontrato Abu Moujhaed, il referente dell’associazione palestinese con cui collaboriamo. Finalmente questa persona di cui ho tanto sentito parlare questi mesi acquista un volto. Passa da fantasma ad entità reale, esistente e tangibile. Quando l’ho visto per la prima volta mi ha ricordato la figura di un nonno. Capelli bianchi e vestiti comodi. Non sapevo come approcciarmi ne come salutarlo, come mi dovevo presentare. Ci ha pensato lui a risolvere la questione. Ci ha guardato, e con un immenso “welcome, my dears!” ci ha abbracciato. Possibile che fosse così facile? In macchina lentamente le cose sono cambiate. Allontanandoci dal centro di Beirut verso Shatila si ha come l’impressione man mano di abbandonare la civiltà, è come se Dio si fosse scordato di questo angolo di mondo. Entrare nel campo è qualcosa che non si può spiegare, si può solo vivere. Al buio poi non è stato cosi caotico perché le strade erano mezze desolate. Solo vie strettissime, cumuli di cavi elettrici come mille ragnatele sopra di noi. Mondezza ovunque, e bambini che camminano scalzi, giocandoci. Ero senza parole. Finalmente alla luce del CYC ho visto bene Abu, abbiamo parlato tanto. Mentre parlava con noi con un inglese da un accento arabo molto pronunciato, l’ho osservato per bene. Anche quando ride i suoi occhi sono stanchi. AbuUna stanchezza umana di anni ed anni di lotte e sofferenze. Non oso immaginare quante persone e vite quegli occhi abbiano visto scorrergli davanti. Abbiamo parlato di ciò che andremo a fare qui, della formazione, degli acquisti che faremo. Ogni ruga sul suo volto tradisce anni di sfide contro mulini a vento, contro una vita che probabilmente lo ha deluso e tradito in continuazione. Ed io mentre lo guardavo mi chiedevo cosa cazzo ci facessi li, chi diamine fossi per insegnare qualcosa a quell’uomo, che di vite probabilmente ne ha già vissute cinque tutte insieme. Non so cosa speriamo di ottenere. Forse dovremmo essere noi ad imparare qualcosa da lui. Specialmente io,  mentre Abu vive sempre qui ogni giorno, in questo buco di posto, con la forza di sorridere ad una perfetta scosciuta, e mentre tiene un bricco di caffè in mano chiedermi: “do you want more, my dear?”. Quel caffè nero, scuro, denso, con un retrogusto amaro e ricco di posa, di cui già so che sentirò la mancanza appena arrivata a casa..

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